Lavoro domestico: un servizio al capitalismo / Comment le travail domestique rend service au capitalisme / How housework sustains capitalism

“Stare a casa con i bambini non è un lavoro. Se lo fosse, sarebbe pagato.” (Punti e interrogativi, p. 52)

Recensione e riflessione su Il punto zero della rivoluzione di Silvia Federici

Nove saggi dipanano una tematica ancor oggi troppo poco dibattuta: quella del mancato pagamento del lavoro domestico e riproduttivo, effettuato quasi esclusivamente dalle donne e rivendicato fin dai primi anni ‘70 da Silvia Federici – femminista, filosofa e scrittrice italiana che da cinque decenni vive negli USA – a controcorrente dal mainstream femminista che l’aveva respinto per timore che venisse decretato “geneticamente femminile”. La Federici ne reclama la remunerazione come una necessità, perché ha visto il prezzo pagato dalla madre nello svolgere quel lavoro con amore, ma senza retribuzione. E afferma che, “tentando di dimostrare perché […] dobbiamo lottare contro questo lavoro […] ne ho colto l’importanza. Perché le donne, nell’epoca del femminismo militante, hanno iniziato a veder[lo] come un destino peggiore della morte”. Per sfuggire ad esso si sono aggrappate al filone che indicava il lavoro fuori casa quale unico mezzo per raggiungere l’indipendenza economica e la “parificazione” agli uomini. Per quanto giusto e importante, Federici sottolinea che il movimento verso l’esterno ha indebolito la forza e la posizione delle donne, cheda allora si sono suddivise in lavoratrici (intelligenti e apprezzate) e casalinghe (quelle che “non fanno niente” e spendono i soldi dei mariti). Il lavoro di coloro che sono rimaste a casa non è stato riconosciuto e questa frattura interna gioca ora in sfavore delle donne.

La posizione della Federici, allora avanguardista, troverebbe nell’epoca attuale un’eco più ampia perché le donne ha conquistato la sfera pubblica e ampiamente dimostrato le loro capacità intellettuali e professionali. Il mancato riconoscimento della parità salariale, che potrebbe esemplificare il contrario, è un bastione non ancora caduto, a mio parere, per ragioni capitalistiche piuttosto che per un pregiudizio maschile. Una plausibile ragione per la quale non è stata ancora raggiunta la parità salariale l’ho trovata in questo libro quando l’autrice afferma che, fondamentalmente, non ci siamo ancora affrancate dalla nostra condizione psicologica di “schiave” e, pertanto, i datori di lavoro sanno che siamo disposte a lavorare per meno, visto che siamo abituate a lavorare per niente e che abbiamo bisogno di soldi per sentirci indipendenti e considerate. Complice è anche il tempo parziale al quale le donne si piegano per ragioni famigliari, ma che diminuisce le possibilità di avanzamento e che ci sospinge, ancora e sempre, in casa. Per tanto così, tanto vale starci con onore e battersi per consegnare la lotta a un livello più avanzato. Purtroppo, noi donne siamo ora prese tra due fuochi: occuparci della famiglia è ancora e sempre compito nostro… ma abbiamo orrore di essere chiamate casalinghe.

Per comprendere appieno le implicazioni derivanti dal pagamento di un salario per il lavoro domestico, occorre coglierne l’aspetto essenziale: quello svolto all’interno delle famiglie in modo gratuito è un lavoro a tutti gli effetti e “remunerarlo equivarrebbe a renderlo visibile, riconosciuto e ricompensato”. Il cambiamento davvero epocale consisterebbe quindi nel “riuscire a iscrivere la richiesta di salario al lavoro domestico non come una richiesta di denaro, ma come una richiesta fondamentale di riconoscimento del valore di quel lavoro”. Questa è la prospettiva più rivoluzionaria, sostiene la Federici, perché “anche se otteniamo asili nidi, parità salariale o altro, otterremo un cambiamento soltanto attaccando la radice del nostro ruolo femminile. Avere un secondo lavoro non ci ha mai davvero liberato del primo, abbiamo solo meno forza per lottare contro entrambi”. Si sono fatti molti passi avanti, si parla sempre più spesso di pari opportunità scolastiche tra ragazzi e ragazze, soprattutto nei campi scientifici, del soffitto di vetro, di servizi per aiutare le madri a lavorare fuori casa… ma sul lavoro domestico e riproduttivo siamo fermi. O forse regrediamo, perché è ancor più svalutato di prima e, per questo, le generazioni più giovani non riescono ad identificarvisi.

Io stessa non ho mai immaginato un’altra possibilità che studiare e andare a lavorare, da un lato perché questa visione era ancora troppo lontana da me e, dall’altro, perché il lavoro domestico mi pareva disprezzabile esattamente per le stesse ragioni addotte dall’autrice. A parte che davvero non mi piace fare le pulizie o cucinare, chi non ha mai visto sgobbare la propria madre senza nessun grazie né a parole, né con il denaro? Il lavoro delle madri di famiglia è sempre stato gratuito, scontato, invisibile dall’esterno. Così, le donne nate negli ultimi 50-60 anni hanno capito che era una specie di schiavitù e l’hanno rifiutato. Ma non ci siamo mai chieste come siamo potute diventare “schiave”! A questa domanda risponde il libro più famoso di Silvia Federici, Calibano e la strega, del quale ci occuperemo più avanti.

Il mancato pagamento del lavoro riproduttivo non ha creato problemi solo alle donne: ha incatenato gli uomini al posto di lavoro per sostenere la famiglia, dando origine a un rapporto di interdipendenza costellato da insoddisfazioni reciproche, per il quale non abbiamo osato trovare soluzioni innovative. In questo senso, è ancora aperta la discussione se il lavoro salariato sia sinonimo di libertà. Me lo sono chiesta molte volte, per giungere alla conclusione che è una schiavitù come un’altra e anzi, ancor più subdola, dal momento che ricevere un salario e un briciolo di visibilità costituisce un beneficio secondario che lo rende irrinunciabile. Però, con il tempo, le donne hanno “scoperto che la tuta o il tailleur non danno più potere del grembiule”, afferma l’autrice. Senza aver fatto un sondaggio, sospetto che senza remunerazione il 99% delle persone non continuerebbe a fare il lavoro che fa. Ma non essendo nemmeno remunerato, il lavoro riproduttivo costituisce l’ultimo gradino della scala! Pagarlo potrebbe divenire interessante anche per gli uomini, contribuendo a farlo uscire dal temuto “ghetto femminile” e offrendo a tutti maggiore libertà di scelta. Naturalmente, la riforma va attuata su più fronti: occorrerebbe anche la parità salariale perché, fintanto che il salario maschile sarà fino al 30% più elevato di quello femminile, non vi può essere davvero libera scelta.

Inizialmente, lo scopo di lavorare fuori casa era giustificato e sostenibile: rompere l’identificazione, accedere all’indipendenza economica. Molte ce l’hanno fatta, ma a discapito di quelle che sono rimaste a casa, più svalutate che mai. Eppure, il lavoro riproduttivo è il terreno di lotta comune delle donne, dato che non ce ne affranchiamo mai, al massimo ne deleghiamo una parte… a un’altra donna di classe sociale più bassa, che spesso non ha molte altre possibilità oneste e dignitose di procurarsi denaro.

È mia opinione che i tempi siano maturi per ravvivare questa rivendicazione. È il punto zero della nostra rivoluzione e per attuarla basterebbe il consenso di tutte le donne, la cui unica ragione per opporvisi, come detto, sarebbe la paura di doversi definire casalinghe, una delle condizioni sociali con minor potere. Il sistema sfrutta questa nostra debolezza e mantiene il nostro asservimento. Siamo andate così in avanti da non poter tornare indietro e tuttavia, senza il riconoscimento che sia un lavoro, non abbiamo neanche potere sindacale e siamo alla mercé della gentilezza dei nostri rispettivi mariti. A qualcuna va meglio. A molte no. Ma indipendentemente dal tipo di lavoro che facciamo, siamo tutte donne e non abbiamo un destino molto diverso: tra chi lavora in casa e chi fuori, tra chi vive in povertà e chi ha istruzione, diplomi e lavoro, siamo semplici pedine sulla scacchiera economica. Solo unite possiamo fare la differenza e far comprendere che la maggior parte del lavoro davvero importante ed essenziale non produce soldi, ma è sfruttato e denigrato dal sistema ai fini stessi della sua prosperità.

Silvia Federici usa senza mezzi termini l’espressione: “rivoluzione femminista incompiuta”. Personalmente mi schiero da tempo tra i ranghi di coloro che vorrebbero rilanciare un dibattito a questo proposito e sono grata che ella, ben meglio di me e con la forza della sua carriera intellettuale, l’abbia fatto. Vicina agli ottant’anni, ha posto le basi che dobbiamo oggi rendere più solide, nel tentativo di completare la rivoluzione femminista. Se anche voi la pensate come lei, come me, condividete questo post e manifestatevi. Potrebbe non essere LA soluzione, ma dibatterne e agire ci porterebbe senza dubbio un passo in avanti.

Comment le travail domestique rend service au capitalisme

Critique et réflexions sur Revolution at point zero de Silvia Federici

Neuf essais pour discuter d’une thématique encore trop peu débattue : la gratuité du travail domestique, accompli presque exclusivement par les femmes. Silvia Federici, féministe, philosophe et écrivaine italienne vivant aux EU depuis 5 décennies, revendique son paiement depuis le début des années ’70, à contrecourant du mainstream féministe, qui l’avait refusé par peur qu’il ne soit décrété “génétiquement féminin”. L’auteure réclame haut et fort son paiement, car elle a vu sa propre mère le faire avec amour, certes, mais sans aucun remerciement. Elle affirme également que c’est bien « en essayant de démontrer que [les femmes] doivent lutter contre ce travail, qu’[elle en a saisi l’importance ». Car les femmes, à l’époque du féminisme militant, ont commencé à le voir comme un « destin plus horrible que la mort » et, afin de lui échapper, elles ont rejoint le mouvement qui considérait le travail à l’extérieur comme LA voie pour atteindre l’indépendance économique et l’égalité. Ce mouvement était juste et important mais, selon l’autrice, il a affaibli la force globale des femmes qui, depuis les années ’70, se sont divisées en travailleuses (intelligentes et appréciées) et au foyer (celles qui « ne font rien » et dépensent l’argent de leurs maris). Le travail de ces dernières n’a pas été reconnu et cette fracture interne joue en défaveur de toutes les femmes, car nous ne formons plus une majorité.

La position de Federici, jadis à l’avant-garde et marginale, trouverait aujourd’hui un écho plus ample car les femmes ont conquis l’espace public et largement démontré leurs capacités intellectuelles et professionnelles. Le fait que nous n’avons pas encore atteint l’égalité salariale, ce qui pourrait être considéré un contre-exemple, est dû à des raisons liées au capitalisme, plutôt qu’aux préjudices des hommes sur la capacité des femmes. Ce livre m’a confirmé que pour qu’il y ait égalité salariale, il faudrait que les femmes soit libres de la condition psychologique d’«esclave», car c’est ce qui pousse les employeurs à les payer moins que les hommes: ils savent que nous avons l’habitude de travailler pour rien et que nous désirons cruellement argent et appréciation. A cela s’ajoute sans doute le temps partiel pour s’occuper de la famille, qui diminue les possibilités de carrière et nous pousse à nouveau, discrètement, à la maison. Alors on peut se poser la question : ne vaut-il mieux être fière d’y être et se battre pour faire avancer la cause? Les femmes sont malheureusement prises au piège : s’occuper de la famille est toujours leur travail… rien n’a changé… mais maintenant elles ont honte d’être des femmes au foyer, donc elles vont bosser aussi en dehors de la maison!

Afin de mieux comprendre l’envergure de la thèse proposée par Federici, il faut tout d’abord en saisir le point essentiel : ce que font les femmes gratuitement pour leurs familles, à la maison, est un vrai travail et le rémunérer équivaudrait à le rendre finalement visible, reconnu et récompensé. Ce serait un changement fondamental, que de réussir à faire reconnaître le salaire domestique en tant que reconnaissance de ce travail, plutôt que d’une simple requête d’argent. L’autrice est convaincue que ce serait une prospective révolutionnaire car, même « si nous obtenons des crèches, l’égalité des salaires ou autre, nous obtiendrons un changement seulement en attaquant la racine de notre rôle». Avoir un travail à l’extérieur ne nous a pas libérées du travail domestique, affirme-t-elle, nous avons juste moins de temps et de force pour lutter contre les deux. Le mouvement féministe a certes fait de pas de géant : on parle de plus en plus d’égales opportunités entre garçons et filles à l’école, du plafond de verre, des services pour aider les mamans à travailler (en dehors de la maison)… mais quant au travail domestique, nous n’avons pas avancé. Pire encore, nous avons reculé car il est encore moins apprécié qu’avant et, pour cela, les jeunes générations n’arrivent plus à s’y identifier.

Moi la première ! Jeune femme, je n’ai en fait jamais imaginé d’autre possibilité car, d’une part, je n’avais jamais réfléchi en ces termes et, d’autre part, les travaux domestiques ne me plaisaient guère (tout probablement pour les mêmes raisons dénoncées par Federici). Qui, d’ailleurs, n’a jamais vu sa propre maman travailler très dur sans gagner d’argent ou entendre des remerciements? Le travail des mères a toujours été gratuit, attendu, invisible. C’est ainsi que les femmes nées dans ces dernières 50 ou 60 années ont compris que c’était une forme d’esclavage et l’ont refusé. Mais nous ne nous sommes jamais demandé comment nous avons pu en arriver là. À cette question répond le livre le plus connu de Federici, Caléban et la sorcière, dont on reparlera.

Que le travail reproductif (qui comprend la procréation et l’éducation des enfants, la gestion de la maison ainsi que les soins aux personnes âgées dans le cercle familial) ne soit pas rémunéré pose problème aussi aux hommes, car il leur faut impérativement aller au boulot pour subvenir aux besoins de la famille. Cette dépendance réciproque a créé des problèmes pour lesquels nous n’avons pas su trouver des solutions innovantes. Et puis… est-ce que, finalement, aller au boulot est synonyme de liberté ? Voilà une question que je me suis posée plusieurs fois et la réponse est non. On pourrait même le définir un « esclavage » encore plus subtil, duquel il est davantage difficile de se défaire car nous recevons une récompense économique et sociale. Après 50 ans de travail extra-domestique les femmes ont vite découvert qu’avec « le tailleur on n’a pas davantage de pouvoir qu’avec le tablier », nous dit l’auteure. Et sans avoir fait un sondage je crains bien que sans rémunération, presque personne ne ferait le travail qu’il ou elle fait. Mais bien évidemment, n’étant même pas payé, le travail reproductif est au plus bas de l’échelle. Le rémunérer le rendrait intéressant aux yeux des hommes et pourrait le faire sortir du « ghetto féminin », pourvu qu’il y ait aussi égalité de salaires car nous savons très bien que, tant qu’un homme gagnera jusqu’à 30% plus qu’une femme, un vrai choix n’existera pas. Il faut donc des réformes à plusieurs niveaux.

Au début de la révolution féministe, travailler à l’extérieur, contre rémunération, était justifié et juste : casser l’identification, accéder à l’indépendance économique. Beaucoup de femmes ont réussi, mais en dépit de celles qui sont restées à la maison. Toutefois, le travail reproductif est le terrain où chacune d’entre nous mène sa bataille, car nous n’arrivons pas à nous en défaire, tout au plus nous en déléguons une partie à une autre femme… de classe sociale plus basse, qui souvent n’a pas d’autre moyen honnête et digne de gagner sa vie.

Je suis de l’avis que les temps soient mûrs, désormais, pour cette revendication. Il s’agit du point de départ de notre révolution et pour la gagner il suffirait que toutes les femmes soient d’accord. Nous avons compris, maintenant, que la seule raison pour s’y opposer tient au fait de ne pas vouloir se définir femmes au foyer, car c’est l’une des conditions sociales avec moins de pouvoir. Le système profite de notre faiblesse et nous maintient ainsi dans une autre condition d’esclavage. Nous avons tellement avancé, que nous ne pouvons pas imaginer un retour en arrière. Toutefois, sans que ce soit reconnu comme un vrai travail, nous n’avons pas de pouvoir de négociation et nous dépendons de la bonté de nos époux. Certaines s’en sortes mieux que d’autres. Mais ce n’est qu’en étant unies que nous pouvons faire la différence et faire comprendre que la majorité du travail essentiel ne produit pas d’argent, mais il est exploité et dénigré par le système aux fins même de sa fortune.

Silvia Federici parle clairement de “révolution féministe inachevée”. Personnellement, je suis de l’avis qu’il faille relancer le débat et je suis heureuse qu’elle, du haut de sa carrière intellectuelle, l’ait fait. Proche des 80 ans, elle a posé les bases. Aujourd’hui il est de notre ressort de les rendre plus solides et finaliser la révolution féministe. Si vous êtes du même avis, partagez ce post et manifestez-vous. Peut-être ce n’est pas LA solution, mais en parler, et agir, fera avancer le débat.

How housework sustains capitalism

Review and personal thoughts on Revolution at point zero by Silvia Federici

Nine essays on a topic, which we have not sufficiently debated so far: why is housework not paid, as any other job? Silvia Federici – Italian feminist, philosopher and writer who settled down in the US five decades ago, claims it should be so since the early Seventies, when mainstream feminism rejected it for fear it would be considered as “genetically feminine”. The author claims its payment as necessary as she saw how her own mother did her job with love but without receiving a single penny or gratitude whatsoever. She states that she realised how important is it when she was fighting against it and understood why women had begun considering it as a “destiny worse than death itself”. In order to dodge it, they went out of their homes to work for a salary. In that way, they proved that women were as intelligent and competent as men were, and became economically independent. As important and right this movement has been, according to the author it weakened women’s global position: since then, women were split into two categories: workers (praised for having brains and money) and housewives (unpraised because they are “not working” and allegedly suck their husband’s money).

Federici’s position, back then avant-garde, would find more supporters now because women widely demonstrated their intelligence and competence. As for unequal wages, an example which could demonstrate that employers do not believe women as capable as men, I reckon it is not due to a prejudice anymore. Here again, the author gives a plausible explanation for it: employers know that women have always worked for nothing, therefore little money is an improvement already. They did not get rid yet of their psychological condition of “slave”. Add this to the fact that women usually take a part-time job when they have a family, thus decreasing the opportunities for career. They do this because taking care of children and home is still their job, although they hate being called housewives.

A wage for the housework would stress the most important fact: what people (mostly women) do for their families is a real job. Paying it would mean recognise it is a job, making it visible and rewarded. It is not a simple question of money, though: people must see that this job is valuable and must be paid for its worth. We are talking about a radical change of mind. In fact, even if we create more nurseries, equal pay or whatever, “we will not change things until we uproot the foundation of feminine roles. Having a second job did not free us from the first but rather, it took away our time and energy to fight against both” – says the author. True, there have been many improvements: there is more and more talk about equal opportunities for girls, glass ceiling, nurseries and other services to help working mums, yet we did not do any step forward as far as housework is concerned. Worse than that, as it is even more underrated than ever and women of the new generations cannot identify themselves with it.

I admit I had never thought about staying at home either. Housework seemed to be “worse than death itself” exactly for the same reasons. I guess few girls older than 35 have not seen their mother work hard at home without a compensation in kind words or money. The work of women of the earlier generations has always been free, given for granted, invisible. No wonder the latter generations refused it. They see it as a form of slavery, yet they have never asked themselves how we became “slaves”. The answer to this question can be found in Federici’s most famous book, Caliban and the witch.

Refusing to pay reproductive work (which includes, according to the author, giving birth, taking care of the children, of the house and of elderly people in the household) chained men to their own paid job, because they had to provide for the family, much to their dissatisfaction as well. The truth is, we have never tried to find ground-breaking solutions. We could also argue that paid work is not always a synonym for freedom. To my mind, it is yet another form of slavery… or even worse, since money and social approval tie people to it. Women in the last fifty years discovered – so the author says –that a suit or an overall do not yield more power than an apron. Let me guess something: what if you were given no money for your job in a company? Would you really do it? Yet, since housework is not even paid, it lies at the very bottom. Pay it, and it will become interesting for men too. That is how we could get it out of the “female ghetto”. Then give men and women equal wages and we would all have more freedom of choice.

At the beginning of the feminist revolution, working outside the house had a very precise and rightful meaning: women would demonstrate that they could do what men did, and they wanted to be economically independent. They succeeded. Yet they discriminated even more those who stayed home. Reproductive work is our common fighting ground since we never get rid of it: we simply outsource it to another woman (of a lower social class).

To my mind, we might be ready to change things now. It is our revolution at point zero. We just need to be united. But women are not, as they fear going back to the disempowered condition of housewife. The systems takes advantage of this weakness and keeps us in slavery. Truth is, we have gone so far that it seems impossible to step back. Yet, without recognising that even housewives are doing a real job, we have no union power and we depend on our husband’s kindness. Together we can make a difference and make people understand that most of the authentically essential work does not produce any money. Yet it is exploited and vilified by the system, for the sake of its own survival.

Silvia Federici talks about an uncompleted feminist revolution. I personally agree with her theory and I would like to debate this issue. I thank this fine intellectual woman for having raised it again. She will be eighty years old in 2022 and has been working all her life to set the foundations on which we can build on. If you agree with her too, share this post and write to me. It might not be THE solution, but discussing it and doing something will surely take us even further.

1 thoughts on “Lavoro domestico: un servizio al capitalismo / Comment le travail domestique rend service au capitalisme / How housework sustains capitalism

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