Immigrate, integrate? / Immigrée, intégrée? / Newcomers’ integration

Margherita arrivò in paese con una faccia che tutti capirono che era straniera. (Rammendi, in Punti e Interrogativi, p. 136 – Antonio Tombolini Editore)

La vedo sul tram, nel centro di Ginevra. Ha 17 anni. Tuttalpiù 20. Ha l’aria seria, non sorride. Forse è somala. O nigeriana. Porta il velo e una tunica tradizionale che le copre ogni lembo di pelle. Nella carrozzina dorme il suo bimbo.

Cosa è cambiato, per le giovani donne immigrate? Detto così, nulla.

Poi guardo il velo e la tunica: sono leopardate. La borsa è moderna, griffata. Forse il cambiamento inizia da qui, da questi segni appena visibili. Forse sono gli unici. O quelli consentiti? Forse qualcosa si sta muovendo. Se è così, lo fa al ritmo delle donne pervase da una cultura di origine che cerca la giusta integrazione con quella alla quale si confronta ogni giorno, gestendo come può il conflitto tra tra le due.

Cambiare è sempre complicato, per ognuna/o di noi: nell’immobilità, la natura umana cerca certezze. Anche quando non ha da affrontare sfide di questa portata.

 

Immigrée, integrée?

Je la vois dans le tram, au centre de Genève. Ella a 17 ans, peut-être 20. L’air sérieux, elle ne sourit pas. Vient-elle de Somalie? Ou du Niger? Elle porte le voile et une tunique traditionnelle qui la couvre jusqu’aux pieds. Dans la poussette, son bébé dort.

Qu’a donc changé, pour les jeunes femmes immigrées? Rien, on dirait.

Alors je regarde à nouveau: le voile et la tunique ont des taches de léopard. Le sac est moderne, de marque. Peut-être le changement part de ces signes à peine visibles. Sont-ils les seuls? Ou les seules consentis? Quelque chose est en train de se passer et on ne le voit pas? Si c’est le cas, le changement se passe au rythme d’une culture d’origine qui cherche à trouver la juste intégration avec la culture dans laquelle elle vit à présent, en gérant le conflit qui s’ensuit, le sentiment de “trahison”.

Changer est un défi de taille. Dans l’immobilité, la nature humaine cherche la sécurité. Cela vaut également pour nous, qui n’avons peut-être pas un défi aussi grand à relever.

 

Newcomers’ integration

I see her on the tramway, in Geneva. She is 17, maybe 20. She looks serious, she does not smile. Maybe she is from Somalia. Or Niger. She wears the veil and a long traditional dress which covers her completely. A baby sleeps in the pram she is pushing.

What has changed, then, for young immigrant women? Nothing, one would say.

Then I look again. The veil and the dress have leopard spots. The handbag is modern, of a well-known brand. Maybe change comes this way, with almost invisible signs. Maybe they’re the only ones. Or perhaps something is changing inside. If this is so, the rhythm of change is that of women still permeated with a culture of origin trying to come to terms with the one they are living in now. Because adopting a new one often implies a “betrayal” of the ancient one.

And it is a big challenge. We may not have as big a challenge in front of us, yet sometimes we dodge change too.

PUNTI E INTERROGATIVI, nuovo libro/nouveau livre/new book by Manuela Bonfanti Bozzini

punti e interrogativi

Collana Oceania di Antonio Tombolini Editore, 2016, ISBN 9788893370554

Disponibile da subito in ebook e da fine novembre in versione cartacea.

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Donne in primo piano o sullo sfondo. Ieri, oggi, qui, altrove. Donne infine protagoniste, sempre, della loro vita. Uno sguardo che osserva e si interroga, traducendo dubbi e certezze. Donne diverse o uguali a ieri, impegnate oggi per i paradigmi di domani. Quesiti esistenziali, relazionali, materiali, che rincorrono il traguardo di quel rassicurante punto che, una volta raggiunto, si rivela solo linea di partenza per nuove domande. E il circolo vizioso si trasforma in virtuoso. Perché niente è. Ma sarà? Quattordici racconti grazie ai quali, cercando risposte, si scopre che esistono soltanto domande.

Una raccolta di racconti che spazia su argomenti in apparenza femminili, ma che non possono essere separati dalle analoghe esperienze maschili. La raccolta contiene alcuni scritti premiati negli scorsi anni e pubblicati in antologie di premi letterari, e diversi racconti più recenti. Anche grazie alla forma del racconto breve, il volume risulta agile, di lettura gradevole, pur affrontando temi e contenuti profondi. Il libro è edito dalla casa editrice Antonio Tombolini, prima casa editrice digital first, che crede fermamente nella distribuzione web. Grazie a un concetto innovativo e alla collaborazione di personale altamente qualificato, ATE si sta ritagliando uno spazio importante nel panorama letterario italiano. L’offerta in catalogo è già ben fornita, perciò non esitate a dare un’occhiata tra gli scaffali online. Il distributore ufficiale della versione cartacea è Amazon, ma anche tutti gli ebook sono ordinabili sul sito del gigante della distribuzione.

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Femmes sur le devant de la scène, ou derrière. hier, aujourd’hui, ici, ailleurs. Des femmes enfin protagonistes, pour toujours, de leur vie. Un regard qui observe et s’interroge, traduisant en mots doutes et certitudes. Des femmes qui ont ou n’ont pas changé, engagées aujourd’hui pour les paradigmes de demain. Des questions existentielles, relationnelles et matérielles, qui courent après un rassurant point d’arrivée qui, une fois atteint, se révèle le point de départ pour des nouvelles questions. Et le cercle vicieux se transforme en vertueux. Car rien n’est vraiment. Mais il le sera? Quatorze nouvelles grâce auxquelles, en cherchant des réponse, nous découvrons qu’il n’existe que des questions.

Women in the foreground or in the background, yesterday, today, here, elsewhere. Women who are finally main characters of their own lives. A penetrating look which observes and asks questions, translating them into short stories of doubts and certainties. Women who changed or stayed the same through time, engaged today for tomorrow’s way of life. Existential, material, relational questions which look for a reassuring finishing line which, once reached, is nothing else than a starting point. It’s a catch 22 race whose price is growth. Because nothing really is. Yet could be. Fourteen short stories which, looking for answers, help us discover that only questions exist.

Ma “femminista” è una parolaccia?

“Essere intellettuale era considerato peccato grave, e femminista ancor di più. Per fortuna il tempo della caccia alle streghe era terminato da un pezzo.”  (La lettera G, p.137)

Presentazioni e incontri con i lettori sono occasioni di crescita anche per chi scrive. Per modestia le declinerei, ma dopo aver letto dell’esperienza di uno scrittore considerato snob dai suoi lettori per la sua assenza a questi eventi, ho avuto conferma che cambiare il nostro punto di vista permette di scoprire cose nuove e che la vera ricchezza sta nello scambio. L’incontro del 28 maggio scorso con i gruppi di lettura di S. Antonino e di Grono è stato uno di questi eventi arricchenti.

Ecco che mi ritrovo con donne che, indipendentemente dal loro grado di istruzione, sono profondamente intelligenti: hanno una grande comprensione della vita e mirano a migliorarsi ogni giorno. Donne che non definirei vivere una vita da Lettera G, ma che si sono tutte riconosciute nella vita di Gina. Che scoperta straordinaria! Mi ha fatto sentire molto vicina a ognuna di loro. Non perché sia bello vivere così, ma perché nella comprensione che si sta vivendo da lettera G, che la si è vissuta o la si potrebbe vivere, sboccia la consapevolezza che non si può farne l’emblema della propria esistenza. E questo cambia tutto. Cambia soprattutto il nostro rapporto a noi stesse e agli altri, perché partendo da quel punto ormai illuminato si può trovare la via. La via della passione, dell’indipendenza, dell’affermazione personale, dello studio, dell’amore o di qualsiasi altra espressione della nostra anima. Già per il fatto di interrogarsi e mettersi in discussione, ho la certezza che fossero tutte donne che seguono un loro percorso e che non rimarranno ferme alla G. Sono donne che lavorano sul loro empowerment e che faranno ottime cose.

Durante le quasi tre ore (!) di incontro ho risposto a domande su come è nato questo romanzo, come ho proceduto nella stesura narrativa, quali sono state le scelte stilistiche, quale messaggio porta, come l’ho veicolato. La curiosità era molta. Ma la cosa più importante è che (proprio come per il gruppo ginevrino del 2 aprile, e quello di oggi) ogni domanda è sfociata in una riflessione sulla vita delle donne. Che potrebbe essere anche quella degli uomini, ma che è soprattutto nostra. Sulle donne ci sarebbe da scrivere trattati interi e il mio non è che un modesto contributo. Però devo continuare a farlo, anche se ho capito che essere donna, scrivere di donne ed essere pubblicata da una casa editrice attenta alle problematiche femminili porta con sé una conseguenza inevitabile: si può essere sospettate di femminismo. Grave. Gravissimo.

Allora mi chiedo: ma femminista è una parolaccia?

Ovvero: dovrei vergognarmi di esserlo, o non è forse questo l’ennesimo recinto nel quale il nostro cavallo selvaggio è confinato? Un recinto di idee preconcette sulle donne, per cui quando una donna afferma che donne e uomini meritano lo stesso rispetto, quando desidera occuparsi delle sue problematiche di donna e non di quelle maschili, quando pretende di poter vivere in armonia con se stessa andando a scoprire cosa la frena e il tutto – nota bene – senza disprezzare gli uomini o dichiararsi superiori a loro… ecco che deve avere paura: chissà cosa (attenzione alla “sindrome di Gina) si potrebbe pensare di lei? Afferma, desidera, pretende. Tre verbi di difficile coniugazione per noi donne. È dunque un’arpia orribile, una strega incattivita, una donna che odia gli uomini!? Egoista, aggressiva e poco attraente? Le femministe che bruciavano il reggiseno in piazza, quelle che hanno preferito uno stile di vita maschile sacrificando il loro femminile, quelle che hanno rifiutato il genere opposto, avevano le loro motivazioni e senza di loro oggi non saremmo qui a discutere. Queste donne facevano paura agli uomini perché hanno scardinato un sistema millenario in pochi anni. E come tali sono state stigmatizzate, come è accaduto alle cosiddette “streghe” all’epoca dell’Inquisizione.

Il metodo per mettere a tacere le donne è cambiato e segue vie laterali ma pur sempre insidiose. Non cadiamo nel trabocchetto. Noi donne non dobbiamo negare il femminismo (e neppure il femminile) per paura di essere considerate retrò e incattivite, o che gli uomini reagiscano con disprezzo o violenza (anche perché gli uomini intelligenti non lo faranno mai). Questo è solo uno dei tanti modi per metterci a tacere. Siamo voci dal silenzio, ma è ora di farci sentire. Riconosciamo il lavoro fatto dal femminismo di reazione e ad esso integriamo amore, compassione, complementarità, fusione e uguaglianza con gli uomini. Non è utopia.

No, femminista non è una parolaccia. E non è nemmeno il contrario di maschilista, il cui valore semantico non contiene l’idea di lotta per la giustizia, il rispetto o la liberazione dall’oppressione.  Allora chiamatemi pure così. Vorrei coniare un neologismo, ma ho paura di perdere la mia identità. Sono una donna. E voglio conservare la mia essenza femminile. Negli ultimi anni ho imparato a riconoscere il vero valore del femminile e ascoltare le mie intuizioni. E oggi sento che uno dei lavori importanti di questa mia vita è contribuire a restaurare la dignità profonda di ogni donna e il senso del suo valore. So che non mi basterà una vita sola, ma inizio da questa. E sento che tutte le donne presenti in sala quella sera si muovono con me nella stessa direzione. L’oceano è fatto di tanti piccoli corsi d’acqua.

A loro va il mio grazie di cuore per aver condiviso pensieri e esperienze con me.

50 sfumature di grigio

“Se qualcuno avesse voluto prendere il tempo di riflettere, di filosofeggiare sulla vita, bastava seguire Gina per qualche giorno [.. ] per rendersi conto dell’intrinseca impossibilità della cosa. […] Gina non aveva il tempo di fermarsi [..]. Quelle erano cose per ricchi! […] Loro avevano il tempo di […] cercare il proprio destino nell’ordine delle cose. (La lettera G, p. 72)

Lo confesso: volevo la vostra attenzione e le 50 sfumature di grigio non sono quelle dell’ormai famoso libro, bensì quelle evocate da Emanuela nel suo commento a La lettera G, che qui cito: “G potrebbe anche essere “grigia”, come la sua esistenza, la cui tonalità non ha mai cambiato sfumatura. Sapremmo vivere oggi con la stessa forza d’animo senza lamentarci, senza cadere in depressione?”

Quella che pone Emanuela è un’ottima domanda e forse la risposta giusta non esiste nemmeno perché le situazioni di ieri e di oggi non sono comparabili. Per iniziare a dipanare la matassa facciamo questa distinzione, che mi pare capitale, e non dimentichiamoci della parola oggi che, volenti o nolenti, è uno spartiacque.

Parto dall’idea che, un tempo, vivere una vita a colori non era dato ai più. La consapevolezza del voler essere felici trovando il proprio ruolo nell’universo era merce che non si incontrava spesso sugli scaffali del negozietto di paese. Era un prodotto di lusso e, come tale, in pochi (e soprattutto poche) se lo potevano permettere. Quale scelta c’era per le Gine? Non c’erano 50 sfumature di grigio. Anzi, magari ce n’era proprio solo una: il Grigio-Gina. E ce la si doveva far bastare. La certezza che la vita non potesse essere diversa infondeva forza. Certamente donne come lei hanno vissuto una vita molto dura, ma nella certezza di non poterla cambiare stava la forza che permetteva di andare avanti. Un tempo si era più “forti” perché il margine di manovra era esiguo e la nozione di grigiore diversa. Ancora oggi troviamo moltissime persone che possiedono quella stessa forza perché devono affrontare la lotta quotidiana per la sopravvivenza, per un tetto, per il cibo o altre situazioni fortemente limitanti.

Per tornare alla nostra Gina, c’erano senz’altro delle variazioni di classe sociale, di istruzione, di numero di figli o di attività professionale e questo si traduceva in due o tre sfumature di grigio – non molte di più. Per alcuni versi ciò era drammatico, per altri invece era fonte di sicurezza: tutto era “normale”, la vita era così e non la si poteva cambiare. Solo a volte qualcuno – anzi, qualcuna – “impazziva”: le famose isterie o depressioni nervose, spesso femminili per via della più evidente difficoltà della vita delle donne e le poche possibilità di cambiarla. Erano perlopiù manifestazioni dell’inconscio (e in questo non credo si differenzino molto da quelle di oggi, anche se altre ragioni legate alla situazione economica e sociale attuale sono andate a sommarvisi) di chi era in cerca di risposte a domande che non riusciva a porsi, spesso perché non aveva gli strumenti adatti per formularle.

Oggi la situazione è diversa e senz’altro siamo diventati più deboli, perché ci viene proposto il miraggio di una vita tutta a colori. L’istruzione e lo sviluppo della nostra società con tutti i suoi nuovi stimoli, hanno risvegliato il nostro inconscio e chi non riesce a sublimare il desiderio in invidia, rabbia, aggressività, apatia, rancore, tristezza o in una delle infinite forme di dipendenza fisica o emotiva, può sviluppare una malattia psicofisica. L’aumento drammatico delle prescrizioni degli psicofarmaci la dice lunga sul fatto che la nostra società è, di fatto, in depressione. Ma questo è un soggetto tabù perché fa a pugni con la necessità attuale di essere sempre al top. Parliamoci chiaro: finché erano quattro o cinque isteriche di paese andava bene, e poi erano donne, ma non vorremmo mai ammettere di essere tutti depressi! Così, ai primi sintomi si va dal medico che ce li zittisce con antidepressivi e ansiolitici, pagliativi per la sofferenza galoppante, ma di facile utilizzo e creatori di income. Ai tempi di Gina non esistevano, o iniziavano appena ad essere prescritti. Inoltre la poverina non aveva nemmeno lo shopping, la carriera o gli amanti per sublimare il suo desiderio di ballare. Noi sì: nel possesso di oggetti, partner o titoli, a volte troviamo le sfumature di colore che andrebbero magari cercate altrove.

No, malgrado le possibilità della società del giorno d’oggi, non sempre riusciamo a vivere una vita colorata. Allora viviamo 50 sfumature di grigio, le sfumature di quella vita a colori che vorremmo e non possiamo, sappiamo o riusciamo a cercarci. Quale sia il verbo giusto, non l’ho ancora capito. Quanto al Grigio-Gina, è pur sempre un colore. Che ribadisce il suo diritto a non essere invisibile e che sono felice di aver dipinto ne “La lettera G”.

Scrivere la vita delle donne

Faremmo meglio a interpretare un ruolo da protagonista nello sconosciuto e banale film della nostra vita” (La lettera G, p. 203)

 

Eravamo solo donne alla presentazione de La lettera G a Ginevra. La cosa non mi ha colto di sorpresa perché la letteratura è donna: la maggior parte degli uomini sembra avere altri interessi e priorità. E va bene così, anzi, va benissimo. Perché il mio romanzo ha come protagonista una donna, e questo per un motivo molto semplice: io sono una donna. Ecco perché scrivo di donne. Questa non è un’affermazione anodina: gli uomini hanno scritto molto, soprattutto sugli uomini e per gli uomini. Ma addirittura, essi hanno scritto (o parlato) anche delle donne. Attraverso i secoli e secondo i costumi del momento, gli uomini hanno definito le donne e le loro vite, hanno deciso quali dovessero essere le loro passioni e le loro gioie, hanno descritto le loro frustrazioni, hanno parlato dei loro sentimenti e delle loro sensazioni, hanno attribuito loro ruoli che alcune non avrebbero scelto. Spesso si è trattato di ruoli di comparsa, che hanno impedito alle donne di essere protagoniste della loro vita. Come accade alla Gina del mio romanzo. La riconoscete?

La vita delle donne raccontata dalle donne stesse è fatto relativamente recente e questo libro è un primo passo per sfuggire a una visione androcentrica e ridare voce alle donne, perché parlino sempre di più e in prima persona di quello che dà loro gioia, tormento, soddisfazione o frustrazione. Sommersa da secoli di silenzio, la vita delle donne possiede una ricchezza infinita che occorre recuperare e narrare, non importa sotto quale forma. Perché ogni donna ha almeno una storia da raccontare: la sua.

Ringrazio il gruppo intelligente e interessato per aver posto domande che hanno aperto una discussione appassionante, tutta al femminile.